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Se il prezzo di vendita dell’immobile è troppo basso, via libera alla rettifica.

Mutui superiori all’importo dichiarato, nessun preliminare di vendita, scostamento dal “valore normale” sono elementi precisi che complessivamente giustificano la rideterminazione dell’ufficio.

Con l’ordinanza n. 16266 del 18 giugno 2019, la Cassazione ha chiarito che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, secondo gli ordinari criteri di accertamento induttivo, che non sono esclusi dall’articolo 273, direttiva 2006/112/Cee.

Ma vediamo i fatti. Presumendo l’esistenza di maggior imponibile in relazione alla cessione di beni immobili il cui corrispettivo dichiarato risultava inferiore al valore normale dei beni, determinato ex articolo 14, Dpr n. 633/1972, l’ufficio ha rettificato la dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2005 con quattro avvisi di accertamento: uno destinato alla società in relazione ai recuperi a tassazione a titolo di Ires, Irap e Iva, e uno per ciascuno dei tre soci, a titolo di Irpef in ragione della propria quota di partecipazione ex articolo 5 Tuir. In entrambi i gradi di merito, le Commissioni tributarie hanno respinto ricorso e appello dei contribuenti.

Nel dettaglio, la Commissione regionale:

ha dato atto che l’ufficio aveva raccolto elementi precisi e convergenti al fine di sostenere lo scostamento del prezzo dichiarato negli atti di vendita rispetto al valore normale poiché aveva dimostrato che, in 7 cessioni su 8 del 2005, gli acquirenti degli immobili avevano stipulato mutui per importi superiori di quelli indicati negli atti di vendita;

ha ritenuto che, pur essendo venuta meno la presunzione legale ex articolo 35, Dl n. 223/2006 (valore normale Omi), a seguito della legge comunitaria 2008, nel caso in esame, ben potevano trovare applicazione gli articoli 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973 e 54, comma 2, Dpr n. 633/1972 e, quindi, l’esistenza di attività non dichiarate poteva essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, con caratteristiche di gravità, precisione e concordanza;

ha osservato che rientravano tra tali presunzioni semplici qualificate, indicative della sotto-fatturazione al momento della vendita, il diverso valore dei mutui, la mancata produzione di preliminari di vendita, i valori Omi e quelli del borsino immobiliare della provincia;

ha evidenziato la mancanza di prova contraria da parte della società (ad esempio nessun preliminare è stato prodotto benché espressamente richiesto con apposito questionario; lo stato di “rustico” non risultava dagli atti di compravendita dove si parlava sempre di appartamenti composti da locali più servizi, né dalla descrizione nelle relative fatture).

La società ha quindi proposto ricorso per Cassazione, deducendo, tra l’altro, l’errata applicazione dell’articolo 35, Dl n. 223/2006, in relazione all’articolo 2697 del Codice civile. Secondo la società, la Ctr avrebbe trascurato che:

l’articolo 35 richiamato integrava l’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973 e l’articolo 54, comma 3, Dpr n. 633/1972, e attribuiva valore di presunzione legale al valore normale dell’immobile risultante dalle quotazioni Omi al fine della determinazione del corrispettivo di cessione del cespite immobiliare;

a tale disciplina aveva fatto seguito la legge n. 244/2007, secondo la quale (articolo 1, comma 265), “in deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 1, comma 2, per gli atti formati anteriormente al 4 luglio 2006 deve intendersi che le presunzioni di cui al D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, commi 2, 3 e art. 23-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, valgano, agli effetti tributari, come presunzioni semplici”;

l’articolo 24, comma 5, legge n. 88/2009 (legge comunitaria 2008), intervenendo di nuovo sull’articolo 39 richiamato, aveva eliminato la presunzione legale introdotta dall’articolo 35, Dl n. 226/2006 e ogni riferimento al valore normale quale strumento di accertamento automatico per le compravendite immobiliari.

La Corte ha dichiarato infondato tale motivo di ricorso e ha richiamato il proprio orientamento secondo il quale “… a seguito delle modifiche apportate ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, ha eliminato la citata presunzione legale relativa D.L. n. 223 del 2006, ex art. 35, comma 3, è stato ripristinato il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta ‘anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti’…” (Cassazione, n. 16266/2019).

Nell’esaminare il caso, i giudici di legittimità prima hanno ricostruito il quadro normativo di riferimento nazionale con riferimento alla prova in caso di contestazione di maggiori ricavi conseguenti alla cessione di beni immobili, poi ne hanno valutato la compatibilità con la disciplina euro unionale.

I giudici di legittimità hanno così precisato che l’articolo 24, comma 5, legge comunitaria del 2008 (legge n. 88/2009), ha eliminato le disposizioni introdotte dall’articolo 35, Dl n. 223/06, convertito dalla legge n. 248/2006, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene e ripristinando, con effetto retroattivo, il quadro normativo anteriore al luglio 2006 (Cassazione, n. 9474/17). Tale intervento trovava giustificazione nella necessità di adeguare il diritto interno al diritto comunitario, sia per l’Iva che per le imposte dirette (Cassazione, n. 20419/2014 e n. 26487/2016; circolare n.18/E/2010), poiché, con parere motivato (19 marzo 2009 nell’ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575) la Commissione europea aveva rilevato l’incompatibilità delle disposizioni nazionali con il diritto comunitario, secondo il quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.

La Corte ha confermato che la sentenza impugnata aveva fatto corretta applicazione di tali principi. In tale contesto normativo, infatti, il giudice tributario ben può “fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purché dotato dei requisiti di precisione e di gravità” che, tuttavia, “non … può essere costituito dai soli valori Omi”. Questi ultimi, infatti, devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di “presumptio de presumpto” (Cassazione, n. 2155/2019).

E la Ctr non vi era incorsa. Da un lato, infatti, il giudice d’appello aveva riconosciuto che la presunzione legale derivante dal mero scostamento dal “valore normale” era venuta meno e che, quindi, dovevano trovare applicazione le disposizioni di carattere generale ex articoli 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973 e 54, Dpr n. 633/1972; dall’altro, aveva affermato che l’accertamento dell’ufficio era fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti, derivanti dalle differenze esistenti fra gli importi dei mutui concessi dagli istituti di credito agli acquirenti degli immobili, notevolmente superiori al prezzo dichiarato, nonché dall’ulteriore elemento indiziario costituito dalla mancata produzione dei preliminari di vendita, ritenuta costituire indizio di sottofatturazione all’atto della stipulazione del contratto definitivo di vendita e, inoltre, dallo scostamento dai valori Omi. Quest’ultimo, quindi, rappresentava unicamente uno dei plurimi elementi, e non l’unico, preso in esame dal giudice di merito.

La Corte ha poi valutato la compatibilità dell’articolo 54, Dpr n. 633/1972 con l’articolo 273, direttiva n. 2006/112/Ce, secondo il quale la base imponibile è il corrispettivo versato o da versare al fornitore, con esclusione della possibilità di presumere corrispettivi diversi dal dichiarato “in mancanza di prove certe e dirette del maggior prezzo effettivo”. Al riguardo la Cassazione, confermando la posizione della giurisprudenza unionale (Corte di giustizia, C-648/16, C-576/15 e C-524/15), ha chiarito che la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, secondo gli ordinari criteri di accertamento induttivo, che non sono esclusi dall’articolo 273 richiamato, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione (Cassazione, n. 9453/2019).

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